La rosa senza nome
C’è una rosa che, se solo la guardo, sento il suo profumo, lontani ricordi affiorano nella mia mente e mi riportano ai tempi della mia infanzia.
Ero un bambino di sette, otto anni quando, assieme a mia madre, mi recavo alla fermata delle corriere, passando davanti ad una grande casa colonica con un grande cortile. Lì vivevano e lavoravano quattro o cinque famiglie di mezzadri. In mezzo alla grande aia c’era un alto cumulo di legna tagliata, accatastata accuratamente, dalla forma che ricordava vagamente quella di una grande pigna, con al centro un palo ed in cima un aereoplanino di legno con l’elica che, girando, lo faceva orientare verso il vento.
Nel grande cortile c’era sempre un grande movimento di gente impegnata nei lavori dei campi, che si estendevano attorno al casale, e nella cura degli animali della stalla che sorge ancora oggi, seppur pericolante, poco distante dalla strada. Ciò che mi colpiva ogni volta che passavo di là erano i rumori che provenivano da quell’aia. Vociare di donne e schiamazzi di bambini, o grida sonore di animali da cortile come oche, galline, tacchini e, ogni tanto, l’abbaiare di cani.
Sommesso ed autoritario si sentiva il richiamo ai cavalli e alle vacche nella stalla da parte di chi li accudiva.
I bambini erano quelli che di più attiravano la mia attenzione, molti in pantaloncini corti, erano scalzi ed uscivano al seguito di grandi gruppi di oche. In un gran baccano le portavano a pascolare sui prati e lungo le rive dei fossi, con il compito di sorvegliarle perché non invadessero i campi coltivati.
Contro il muro della stalla, verso la strada, mi ricordo dei cespugli di rose rosse, bianche e rosa, che le donne coglievano per portarle in chiesa o in cimitero.
Dal giorno in cui notai quelle rose passò molto tempo, forse una decina d’anni, prima che potessi far ritorno da quelle parti. Nei pressi del casale passa un fiume e, nutrendo una certa passione per la pesca, un giorno mi trovai là in cerca di qualche luccio. Mentre pescavo, memore della vitalità che c’era in quell’ ambiente, ero attento a percepire quali rumori o voci provenissero dalla fattoria. Dopo un po’, incuriosito dal fatto che là intorno ci fosse solo silenzio, smisi di pescare e, dopo aver aggirato la stalla, andai a sbirciare nell’aia. Nel grande cortile vuoto c’era solo qualche gallina che raspava il terreno polveroso. Dalla stalla non sentivo alcun rumore, né sbuffare di cavalli, né muggire di bovini. Sul tetto della fattoria uno stormo di colombi rinselvatichiti tubava tranquillo e da uno solo dei camini usciva del fumo.
Le finestre sembravano occhi spenti sullo sfondo della facciata grigia, qualche imposta era in disfacimento, divelta. Davanti ad un uscio semiaperto un vecchio parlava con un cane.
Quella vista mi gettò nella malinconia. Chissà dov’era andata a finire tutta la gente che ricordavo.
Molte ipotesi affollarono la mia mente mentre abbandonavo il posto da cui spiavo per ritornare al fiume; ripassando vicino alla stalla non potei fare a meno di notare uno striminzito fiore rosso che lottava con la sterpaglia che lo soffocava. Mi fermai un attimo ad osservare, avevo fretta di ritornare a pescare, ma quell’attimo mi fu sufficiente per accorgermi di un particolare curioso. Qualche spina di quel rosaio aveva due punte, cosa non molto comune nelle rose. D’istinto tuffai il naso nel ciuffo di petali di quell’unico fiore, ed un incredibile quanto inaspettato profumo mi colpì. Meravigliato, lasciai quel posto pensando che quel rosaio non sarebbe riuscito a sopravvivere ancora per molto tempo senza cure.
Il destino a volte è strano, sembra decidere per noi, e nel tempo che seguì dall’incontro con quella rosa accaddero molti fatti che mi portarono a sviluppare un intenso interesse per le rose. Così, poco più di quattro anni fa, durante un giro in bicicletta, passai di nuovo vicino a quella casa colonica, e quella volta era proprio deserta, sembrava un luogo abbandonato da tanto tempo. Il tetto della stalla era incurvato, segno che le travi portanti stavano cedendo alle intemperie ma soprattutto agli anni. In una crepa nel muro della stalla vidi qualcosa che si muoveva, mi sembrò una civetta. Nei campi vicini due enormi trattori stavano arando e ruggendo sommessamente, rivoltavano la terra, e mi parve per un attimo che stessero cancellando i miei ricordi.
Spostando con i piedi la sterpaglia e l’erba che cresceva alta presso il muro della stalla, sotto un cardo selvatico riuscii a trovare un arbusto e, dalle spine presenti sui rami rinsecchiti, capii che si trattava di un rosaio. Con l’aiuto di un temperino tolsi a fatica le spire del convolvolo che lo avviluppava per osservarlo meglio, riconobbi così la rosa di anni fa da qualche spina bifida. Alcuni rami erano ormai secchi, uno solo ancora verdastro, incrostato dalla cocciniglia, con un paio di foglie misere, ammalate, ed in cima un paio di minuscoli boccioli malformati che potevano essere l’ultimo, estremo sforzo di quella rosa. Questo era il penoso spettacolo che avevo davanti. Decisi di agire d’istinto e con cautela tagliai il ramo ancora vivo, rasente il ceppo. Recisi quindi i rami secchi, tolsi le erbacce attorno alle radici e vi accumulai sopra un po’ di terra con il temperino. Volevo dare ancora qualche possibilità a quella rosa. Il tentativo non servì perché l’inverno che seguì vide la sua fine. A casa, dopo aver ripulito il rametto, ne feci una talea che piantai, curandola con tutte le mie attenzioni per molto tempo.
Oggi quel rametto è diventato un rosaio, ha un posto nel mio giardino ed è indubbiamente uno dei miei preferiti. Ho cercato, senza troppa convinzione, su molti libri di scoprire se questa rosa avesse un nome, ma la cosa non mi interessa poi molto.
Per me rimane la rosa della mia infanzia, legata a ricordi di ambienti e modi di vivere ormai scomparsi. Il suo profumo, mentre ho gli occhi chiusi, mi fa rivivere scene di tanti anni fa, di bambini ridenti che rincorrono oche schiamazzanti mentre si sparpagliano su un prato, come in un sogno…
…così il suo nome non ha alcun significato per me.
Autore: Romeo Comunello