Il curriculum verde di Paolo
E’ vero, mia madre dice che sono nato con la camicia, forse è vero dico io, ma era di lino, naturale ma ruvida. L’infanzia dorata l’ho vissuta nel parco. A calcio non mi piaceva giocare e così come Cosimo, il barone rampante, preferivo starmene sugli alberi. Su quegli alberi di casa con i ragazzini del vicinato ci facevamo le capanne e anche la guerra tirandoci le mele selvatiche. Ho imparato così a riconoscere le specie.
Poi al liceo arriva Descartes e il suo “cogito ergo sum”, che è stato il primo motto della mia vita. Ha avuto il soppravvento e sono sceso sulla terra con la passione per l’orto e per i libri. Aiuole ed aiuole (noi in veneto le chiamiamo gombine) di piselli, carote, pomodori, zucchine e ancora patate, cipolle e cavolfiori. E intanto pensavo. Nell’orto ci portavo persino le prime ragazzette, io zappavo e seminavo, loro guardavano ma duravano poco. Forse a farmi scendere dagli alberi, oltre alla mia scarsa agilità arrampicatoria, erano state proprio loro, complice Ciccio Ingrassia in Amarcord. Ad urlare “voglio una donna” dalla cima di un pioppo puoi romperti il collo cadendo o passare per matto, ma di sicuro una donna non la trovi. Anche Nadia, mia moglie, ancora ricorda quei tempi (quelli dell’orto) e del giro per il giardino ad interrogarla su che pianta fosse quella che aveva davanti. Mio padre allora aveva voluto quel grande giardino in collina ma giustificava il suo disinteresse dicendo che a lui piaceva il giardino naturale, che poi significava tagliare l’erba e raccogliere qualche frutto dai vecchi meli o dai castagni. Ma il grande giardino era per lui un simbolo sociale e bastava possederlo. Mia madre invece amava i fiori, li ama ancora, ma senza mai considerarli una cosa seria. Il lavoro è altra cosa doveva pensare.
Così con Cartesio nella testa alla ricerca di utilità ho affrontato il giardino facendomi coinvolgere sempre più nella sua manutenzione.
Il lavoro in azienda, il soggiorno all’estero, i lunghi viaggi in auto, mi hanno distolto per un po’ dall’impegno, poi, quando avrei potuto tornare, il giardino non c’era più. I miei genitori non abitavano più quella casa, al suo posto un bel condominio moderno. Succedeva negli anni ottanta.
Con mia moglie, appena sposati, decidiamo di trasferirci in campagna, farò il vignaiolo. Sulle colline del Collio, dove abitavo, tenere l’orto si era dimostrato subito un lavoro arduo. Poca acqua, argilla che nelle piogge d’inverno si attacca alle scarpe e con il sole diventava un mattone. D’estate larghe crepe sulla terra, ci infilavi le mani. Ho provato per un po’, ma un giorno mi sono spaventato quando dopo aver arato un fazzoletto di terra sotto casa, sulla banchina dove un tempo c’era la vite, una pioggia intensa ha imbibito d’acqua il terreno e questo ha cominciato a muoversi verso fondovalle. Prima che si muovesse anche la casa basta radicchio, ritorni l’erba.
Il mio motto allora era già diventato il socratico “so una sola cosa: di non sapere”. Ho cominciato così una ricerca sistematica sulle varietà fruttifere antiche (e anche qualcuna di moderna). Nei miei viaggi per visitare i clienti del vino trovavo il tempo per visitare vivai di frutti antichi e librerie. La domenica piccone e badile e si piantava.
Più di 300 varietà diverse di ciliegi, pruni, meli, peri, e molto altro. L’obiettivo del cibo era ora meno sentito, volevo distillare il succo fermentato di questi frutti e farlo invecchiare. Mi avevano incantato certi prodotti alsaziani.
Di fiori ancora poca cosa, qualche peonia e qualche bulbo, ma aspettando i figli crescere, passavamo con Nadia lunghi pomeriggi feriali nel piccolo giardino di casa sulla cima della collina. A turno uno lavorava e l’altro leggeva poesie. Bei tempi.
La scelta di fare il vignaiolo non era maturata per una mia particolare passione per il vino, ma per le viti. La parte enologica mi ha sempre lasciato incerto, invece era grande la mia attenzione per i vigneti.
Oltre alle vigne l’azienda aveva anche molti boschi. Trasformarne qualcuno in giardino è stato un esperimento non riuscito, la forza della natura è impressionante, con le mie misere mani, anche se le ho abbastanza grandi, non mi fu possibile modificare il bosco e io non volevo tagliare gli alberi. Così mi bastava girare armato di coltellaccio per recidere qualche rovo, qualche vitalba, qualche ramo morto. Un sacchetto della spazzatura sempre in tasca per raccogliere le immondizie che venivano fuori nei posti più strani, non so se portate dal vento, dall’acqua o semplicemente da qualche antico abitante. Forse gli gnomi.
Da sempre vicino alle vecchie case di campagna, come la mia, c’era il letamaio, dove finivano i rifiuti della stalla, ma anche di casa. Nella società contadina di un tempo non si buttava nulla ed eventuali residui, quasi esclusivamente organici, finivano appunto nel letamaio. Nel Collio di Dolegna dove abitavo, la civiltà consumistica dev’essere arrivata intorno alla fine degli anni 50 e per gli abitanti di quel luogo si è posto il problema di dove buttare vetri plastiche e lattine senza valore. La scelta è stata probabilmente di disperdere questi materiali nel bosco sotto casa. Un sito in particolare avevo individuato scavando qualche bottiglia in superficie. Si è poi rivelato un vero deposito stratificato dove si potevano quasi riconoscere gli anni di formazione dalla marca sulle etichette dei prodotti ancora conservate. Dagli anni 60 le mucche in quelle case non c’erano più, non c’era più il letamaio e i rifiuti andavano in discarica. Il problema si è trasferito ma non è stato risolto. Oggi produrne meno rifiuti deve essere una priorità per tutti, il bosco, la discarica, il mare li abbiamo saturati, e poi? Li manderemo mica nello spazio.
Anche la vigna, il bosco ed il frutteto, hanno però per me fine quando l’azienda viene venduta.
Il mio motto era allora già cambiato. A Roma, il furgone di un panettiere mi aveva pestato un piede. Sul lato la scritta “primum vivere deinde philosophari“ (a dire il vero era scritto “filosofare”). Caro Aristotele come siamo caduti in basso.
Nella nostra nuova casa, attorno alla florida biblioteca che nel tempo abbiamo raccolto, decidiamo di non piantare più ortaggi né frutti, ma solamente FIORI.
Non è mai troppo tardi per cominciare con i fiori.
Forse l’ho fatta lunga, ma la storia di un giardino non può prescindere da quella del giardiniere. E questa è la mia storia e io mi sento giardiniere. Lo studio dei giardini storici della botanica, delle teorie agricole e dell’arte mi sono serviti per acquisire conoscenza, stimolare idee e dare una coerenza al lavoro, ma prima bisogna sporcarsi le mani nella terra, provare e riprovare, verificare.
Quando ho acquistato questa casa, dove ora abito e dove cresce il giardino, mi aveva colpito lo stato di trascurata vecchiaia del giardino stesso. Traspariva ancora un antico amore per le piante di qualche vecchio proprietario, ma era poi seguito un lungo periodo di “abbandono controllato”, nel senso che non era più stato piantato nulla, ma anzi rimosso forse qualcosa, in modo da non avere problemi con il taglio dell’erba.
Mi aveva stimolato per un mio progetto di giardino fiorito l’esistenza di un buon fondale, un piccolo viridario rinascimentale, di piante d’alto fusto, a nord. Alberi sufficientemente grandi per poterci coltivare sotto qualcosa e per isolare lo spazio dagli edifici circostanti. Nel contempo, l’assenza degli strati più bassi di vegetazione (fatto salvo per alcune peonie suffruticose molto vecchie) lasciava libera l’immaginazione.
Così è cominciata la collezione delle peonie che tanta soddisfazione mi sta dando.
Le suffruticose hanno sempre avuto la mia preferenza ma nelle aiuole delle perenni anche le erbacee crescono bene. Le rose sono un’ acquisizione un po’più recente. Il via l’ha dato la nostra amica Cristina che in partenza dalla sua casa ci ha regalato la sua collezione di rose antiche. E’ stato subito amore, la collezione è cresciuta e gli alberi sullo sfondo si sono ricoperti con le rambler.
Non ho detto il vero, però, dicendo che non ho più ortaggi ne frutti, con il tempo infatti gli ortaggi sono rientrati in giardino per il loro valore decorativo, insieme alle spezie. Gli alberelli da frutto, invece, sono arrivati oltre che per i fiori anche per il loro significato. Così ora fanno bella mostra di sé il melograno (Punica granatum) simbolo di fecondità, pianta dalle origini caucasiche culla dell’agricoltura. Il corbezzolo (Arbutus unedo) pianta della macchia mediterranea augurante l’immortalità e per questo simbolo dell’ospitalità. Il corniolo (Cornus mas) pianta dei boschi. Con il suo legno i greci costruirono il cavallo di Troia. I soldati vi facevano le lance e i contadini forgiavano gli oggetti del vivere quotidiano. Il giuggiolo (Zyziphus sativa) originario della Cina spande la sua ombra delicata sui muri delle vecchie case venete. Ma anche il ciliegio (Prunus avium), la sua fioritura ci porta nella primavera e il cachi (Diospyros kaki) per la bellezza del suo frutto arancio nella neve.
Non ho fretta per il mio giardino, lo so è ancora giovane, ma crescerà. Intanto mi piace sperimentare nuove piante e nuove associazioni tra loro.
Particolare attenzione rivolgo alle aiuole dell’ombra, i fiori non sono quasi mai appariscenti ma stupisce trovarli tra le splendide foglie. Mi riferisco ai vari Epimedium, alla Beesia deltophilla, ai ciclamini, all’Hepatica nobilis invece che all’Arum italicus o all’Asarum splendens, alle felci e al disopra rododendri, azalee, ortensie. Ognuna di queste piante ha esigenze proprie per terreno e umidità, cercarne i luoghi di origine è una forma di viaggio e provare a ricrearne l’habitat mischiando le diverse terre un bel gioco. L’irrigazione invece è sempre ad personam con l’innaffiatoio finchè la pianta è giovane e appena trapiantata, di soccorso quando il caldo estivo rende insopportabile anche per alcune di loro questo nostro clima sempre più caldo.
Per alcune proprio non c’è nulla da fare, quante volte ho cercato un posto adeguato al Meconopsis betonicifolia ma l’estate gli è sempre stata fatale. Il papavero orientale invece è birichino, lo pianti nel posto che ti pare migliore, al sole, lui fiorisce e poi sparisce finchè te lo ritrovi dove tu mai avresti pensato. Più sfacciate la Nigella damascena a suo agio tra le rose, la bella di notte (Mirabilis jalapa) ai bordi del muro o la Verbena bonariensis che crea una nuvola blu intorno alla “Dainty bess”.
Malgrado la giovane età del giardino già da ora c’è in ogni momento dell’anno almeno un angolino fiorito. Che allegria e che piacere. E che profumi mano a mano che fioriscono la Dafne odora, l’Edgeworthia chrysantha, la Syringa x Persica “laciniata” per non parlare delle innumerevoli rose (l’incenso delle foglie bagnate della rosa primula).
Anche le erbe selvatiche sono le benvenute e se scelgono un posto adatto possono anche restare. Il bosco è vicino, appena dietro casa, e i semi certo non mancano. La linaria che avevo lasciata libera sta cominciando a diventare invadente.
Di animali c’è abbondanza. Gatti stanziali (dei vicini) e porcospini, uccelli ed uccelletti. Di sicuro anche qualche orbettino e qualche topolino, a dire il vero molto discreto. Manca il cane, lo so, ma è una mia colpa: non rientra tra i miei interessi educarlo a sufficienza per una tranquilla convivenza, rinunciamo. Anche se con qualche rimostranza di Beatrice e Nicolò, i miei bellissimi figli.
Oggi è una solare fredda giornata autunnale, le ultima foglie gialle e rosse del ciliegio volano sul tappeto ancora verde. Le poche roselline che ancora fioriscono sono tra le più belle dell’anno: piccole, con i colori contrastati dei petali ed un lieve profumo. Guardo la ricamata trasparenza della stele che Gianni Pignat ha voluto per il mio giardino, la sua ombra delicata si stende sulle peonie non più belle.
Ha ragione Paolo Pejrone: in giardino non si è mai soli.
Paolo